Di sicuro
ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica
e si chiederà “come”,
mentre altri
di natura più curiosa
si chiederanno “perché”.
Man Ray
In premessa è necessario sottolineare che Giulio Conti è stato, ed è, un fotografo di reportage; per decenni vicino al soggetto “a passo di lupo”, sempre alle prese con degli istanti fuggitivi … un predatore in continuo agguato (Mulas). Lo attestano i suoi libri fotografici: Eoliana: Storie e immagini di una civiltà marinara (1977); Messina. Impronte del passato (1979); Feste popolari e religiose a Messina (1980); Sicilia: i luoghi e gli uomini (1994); Immagini dal tempo (1990); Primipiani. Frammenti di architetture contemporanee (2005); La luce dintorno: immagini e voci di una famiglia ipicese 1914-1964 (2005).
Con queste pubblicazioni, frutto di una sterminata produzione iconografica, ha coltivato, negli anni, il senso della testimonianza, del viaggio, del radicamento nel territorio. Credo di poter dire che la ricerca quotidiana di fatti eccezionali, con la fotocamera sempre a tracolla, abbia finito per indurre Giulio Conti a constatare che tutti i fatti sono eccezionali, e uno vale l’altro.
Invero, parallelamente all’attività di acuto cronista (e da almeno un trentennio), ha percorso i sentieri della sperimentazione creando un vissuto autonomo, elaborando quelle cose eccezionali che avvengono nella realtà, in qualcosa che è eccezionale perché nella realtà non è mai avvenuto.
Sfruttando il potenziale delle nuove tecnologie, tuttavia adoperate esclusivamente in sostituzione delle farraginose pratiche di camera oscura o laddove un tempo servivano maschere, forbici e colla, Conti si produce nel campo della fotografia architettata. Crea in definitiva un linguaggio che si incanala nel più vasto settore della Konstruierte Foto, Staged Photography, Photographie fabriquée, Fotografia allestita, tutte definizioni che Roberta Valtorta attribuisce a quella fotografia che riprende una realtà ricostruita, allestita appunto, laddove il fotografo può anche operare da scenografo, regista costumista, più che da osservatore distaccato. Il fotografo analizza le potenzialità del codice fotografico e diviene quindi l’inventore della propria realtà.
[...] Le prime sperimentazioni di Giulio Conti risalgono agli anni Sessanta-Settanta, e si diramano nei settori più vari della produzione off-camera, dal collage al fotomontaggio, dagli interventi su negativo alle esposizioni multiple, fino alle aberrazioni cromatiche, risentendo di una vasta produzione sotterranea condotta in Europa e Stati Uniti, in alternativa alla fotografia di reportage.
[...] In quella fase storica, le scelte di una fotografia italiana di confine consentivano a Giulio Conti di incanalarsi nelle pratiche che Migliori, ma anche Paolo Monti, andavano conducendo nello sfruttamento parossistico del colore e nell’indagine sulle potenzialità cromatiche degli oggetti.
Collages
[...] Ora, diversamente dalla letteratura e dalla pittura antica, la fotografia sfugge alla categoria dei generi e si situa nell’universo più ampio e sfocato dei linguaggi. Come ha scritto Quintavalle, non si può parlare di una fotografia di genere comico o drammatico, sacro o profano, ma, preferiamo aggiungere piuttosto, di linguaggi trasversali che pure rimangono sottesi allo specifico fotografico, cioè: l’operare con la luce.
[...] Vanno in questa direzione le fotografie solarizzate di Giulio Conti. Si riferiscono a una precisa scelta lessicale e poetica. Ottenute in camera oscura o con i procedimenti di computer grafica, variamente montate ed elaborate, sfruttano la possibilità del linguaggio fotografico periferico, sensibile ad ogni intreccio e contaminazione.
[...] Solarizzazioni, viraggi cromatici, superfici dalla grana accentuata o politenate, geometrie regolari e asimmetrie, lacerazioni, doppie e triple esposizioni, livelli di colore sovrapposti, costituiscono, in queste immagini, il veicolo per un discorso concettuale e simbolico.
[...] Malgrado il dichiarato uso del mezzo informatico, Giulio Conti ha qui adottato i criteri medesimi che potevano essere utilizzati con tecniche tradizionali negli anni ’30 o ’70.
Sfuggendo alle tentazioni miracolistiche della computer grafica, l’autore ha puntato più al senso che all’effetto, al racconto più che al proclama suggestivo, alla serialità come metafora del contemporaneo. Un campionario di Images Trouvées organizzate intorno a una suggestione figurativa.
Non è un caso che un tempo, con un lessico più antiquato, si “prendevano” fotografie; presupponendo il dover riporre ciò che si è preso in qualche luogo e in qualsivoglia modo. Dopotutto il collage consiste, appunto, nel prendere e riporre, nel fare a pezzi qualcosa di preesistente, allo scopo di far nascere qualcosa di nuovo. Ecco che con strappi, montaggi e interventi cromatici, Giulio Conti rimedita, in queste foto, l’esperienza visiva di tutta una vita, riproponendo in forma frammentata e onirica ciò che un tempo è stato affresco, documento o nota di viaggio.
Il montaggio di interni metropolitani, di labirinti edilizi, consente un’ulteriore sottolineatura dello straniamento contemporaneo, così come l’affastellarsi di oggetti visivi promiscui illustra, con senso didascalico, ciò che nella quotidianità percepiamo con disagio.
I messaggi metropolitani (pubblicità, graffiti, scritte vandaliche), si organizzano in queste foto come segni puri, resi algidi e silenziosi in atmosfere rarefatte.
I paesaggi, che con i marcati grafismi, ricordano una estesa tradizione iconografica (Forsell, Smardin, Cordier, Giacomelli) evidenziano dimensioni impreviste e geometrie impossibili come nei quadri di Escher.
Le opere di Niki de Saint-Phalle e Igor Mitorai, decontestualizzate, si avvalgono di una nuova virtualità, e si offrono a inediti punti di vista e cromie desuete, come se il fotografo fosse interessato alla costruzione di un proprio museo personale, luogo privilegiato della memoria vissuto con pienezza comunicativa. Come per Nietzsche bisogna cercare di amare il destino che ci ha colpito, in questo fotolibro emerge il desiderio di tentare le altre vie della tradizione, non potendo ignorare l’urgenza del destino tecnologico che, superato il transitorio straniamento, siamo costretti ad amare.
dalla prefazione di Ex Camera, Fotografie di Giulio Conti (1965-2005)